domenica 6 giugno 2010

La ricerca di un po' di comprensione...


Capisco che non sia facile capire il mondo della ricerca dall'esterno e capisco anche che spesso possa sembrare il ramo della Stato che, a parità di spesa, da meno al cittadino vista la mancanza un contatto diretto. Sarebbe però cosa utile cercare di informarsi prima di sputar sentenze. Per chi vuol parlare senza accendere il cervello ci sono i mondiali a breve... -.-; Quello qui a seguito è un articolo apparso sulla Provincia Pavese alcuni giorni fa e che voglio condividere con voi. Forse può servire a tuti quelli che, almeno una volta, mi hanno chiesto "Ma tu di preciso cosa fai?" :-P



Il Ricercatore offeso e umiliato di Piersandro Pallavicini

Negli ultimi due mesi non ho avuto sabati e domeniche. Quei giorni per abitudine devoti a famiglia, divertimento e riposo, li passavo nel Dipartimento come fossero uguali agli altri. Ma no, sbaglio: erano giorni migliori degli altri. Non ci sono lezioni il sabato e la domenica, non ci sono laureandi e borsisti che bussano alla porta dello studio. Si riesce a leggere, pensare, scrivere meglio, il sabato e la domenica, nel Dipartimento immenso e vuoto, silenzioso e buio. Io al piano terra, al piano di sopra un altro ricercatore come me, al piano di sopra un altro paio, e una ricercatrice all'ultimo piano. Noi chiusi negli studi, inconsapevoli delle altrui presenze, isolati gli uni dagli altri dalle luci spente dei corridoi, dai giroscale fosforescenti per il chiarore spettrale delle macchine del caffè, mentre fuori il giardino è deserto, e il mondo è altrove, dopo il recinto degli istituti.
Potrebbe sembrare perfino una situazione romantica. Cupa, ma romantica. E invece no, non lo è. E' solo una rottura di palle, va bene? Una solenne rottura di palle. Non ci vado volentieri il sabato e la domenica in Dipartimento. Sono un ricercatore, sono uno scienziato, d'accordo. Ma ho una vita come tutti gli altri. E' per questo che oggi, domenica, alle undici di mattina, oggi che ho finalmente chiuso ed inviato al Ministero dell'Università il progetto di ricerca che mi ha succhiato l'esistenza per due mesi, è per questo che esco dal Dipartimento col cuore leggero. Faccio a piedi via Taramelli, poi viale Golgi, la stazione, piazzale Minerva, il corso. E' la solita Pavia, ma c'è il sole e tutto mi sembra bellissimo. Scendo per piazza del Duomo, svolto, entro nel mio caffè. So cosa sta succedendo. Le ho lette le proposte di legge. Sono stato alle assemblee. Sono indignato come tutti, protesterò come gli altri. Ma oggi ho chiuso mesi di lavoro, ho il sorriso sulle labbra e voglio fare una vera, dolce, prima colazione.
Cosa succederà se questo progetto di ricerca verrà approvato? Bè, il mio gruppo di ricerca riceverà centomila euro e avrà due anni per spenderli su quanto ci siamo proposti di fare. Potremo pagare borse di studio a un paio di dottori di ricerca e a un laureato. Potremo acquistare uno strumento fondamentale, e tutti i reagenti, la vetreria, i gas che ci serviranno per lavorare.
Mi arrampico su uno sgabello, di fronte al banco. Ordino un cappuccino. Ordino una brioche ripiena di miele. E no, nemmeno un euro di quel che riceverò se otterremo il finanziamento, finirà nelle mie tasche. Sono soldi per la ricerca, non per l'esimio Dr. Pallavicini. Proprio nemmeno un-euro-uno. Non ci credono, i miei amici non universitari, quando gli spiego che per tutti noi è così.
"Ma perché lavori il sabato e la domenica, allora? Ma chi te lo fa fare?". Appoggio i gomiti sul bancone, appoggio il mento sui palmi delle mani, mi guardo nello specchio e sorrido. Nello specchio, quello seduto al bancone di fianco a me mi guarda con aria interrogativa. Forse avrà pensato che stessi sorridendo a lui. Ha una camicia con le maniche arrotolate, mezza dentro e mezza fuori dai pantaloni grigi. Ha delle scarpe prada. Ha la pancia, no, il salvagente, che sborda fuori dalla linea della cintura. E parla, ingobbendosi verso di lei, con una sessantenne dai capelli ossigenati pettinati a telefono, e la gonna del tailleur che le sale sopra le ginocchia ossute.
Arriva il cappuccino, ne prendo un sorso, è delizioso. Anche della brioche ne prendo un morso ed è deliziosa. L'uomo ingobbito ha in mano un giornale e indica una pagina alla donna: "Poi cosa vorrebbero questi qui?". Manda giù una manciata di noccioline. "I ricercatori che protestano... ma che pedalino!".
Lei annuisce, scuote la testa. Come a dire: un caso senza speranza. E lui fa un gesto circolare con la mano. Buoni quelli, ecco cosa intende. Metto giù la brioche: tanto è diventata amara. Li guardo nello specchio, e non mi importa se lo sguardo è fisso e sembro spiritato: è così che mi sento ora.
La fuga dei cervelli. Gli orari da statali. I privilegi. Il fancazzismo. Gli sta bene, a questi cosiddetti intellettuali pieni di sé. Questo esce dalla bocca dell'oracolo ingobbito, questo ricevono serenamente le orecchie della non più giovane che non si è rassegnata al passaggio dell'età. Questo, capisco in un istante di illuminazione sacra e tragica, è quanto circola nelle teste della gente. Smetto di guardare lo specchio. Ma si, c'è il mondo e il sole fuori dalle vetrine. Scendo dallo sgabello, riportando i piedi a terra, la tazza del cappuccino è ancora quasi piena, ma non mi va più. Faccio un passo verso la cassa. Stanno ancora parlando del mondo marcio e mediocre dell'università, questi due, disgustati della mera esistenza degli intellettuali. Ci ripenso. Torno indietro. Mi allungo a prendere un tovagliolo da una pila che sta proprio di fronte a loro. Ma è una finta, non mi serve. Mi serve dare una gomitata al piattino e far volare tazza e cappuccino in grembo a quei due. Poi vado a pagare. E no, non mi fermo neanche a chiedergli scusa.

2 commenti:


  1. Bellissimo.
    anche un po' commuovente.
    ciao, Bianca

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  2. malaparata: Si, ben scritto... e m'è presa una soddisfazione anche a me a leggere il finale. :-D

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